giovedì, aprile 17, 2008

PUSHER TRILOGY: LA CRIMINAL FICTION SECONDO NICOLAS WINDING REFN.
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Tre film, tre storie sconnesse tra loro ma con personaggi comuni, che si muovono in una Copenhagen sordida e narcotizzata. Un primo capitolo, PUSHER I del 1996 e un regista talentuoso, N.W. Refn che fresco fresco di scuola si lancia in un progetto ambizioso, nel quale crede fermamente e al quale tornerà solo nel 2004 con PUSHER II: WITH BLOOD ON MY HANDS e nel 2005 col capitolo finale, PUSHER III: I'M THE ANGEL OF DEATH. In tre film REFN si pone come obbiettivo quello di prendere a calci nello stomaco lo spettatore e di trascinarlo per i capelli nell'inferno della realtà criminale della capitale danese stravolgendone l'immagine di città nordica pulita e tranquilla. Non c'è scampo, non c'è via di fuga, nè per i personaggi sullo schermo, nè per chi è seduto in poltrona. PUSHER è un'esperienza estrema per chiunque, di quelle che lasciano il segno, di quelle che lasciano l'amaro in bocca perchè la sensazione di vivere in prima persona le vicende truculenti di TONNY, FRANK, MILO e compagni, diventa molto presto una dipendenza forte quanto quella che danno le droghe che scorrono lungo la pellicola...
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PUSHER I:
Frank è uno spacciatore di eroina piuttosto scaltro ma che vive di giorno in giorno, rifornendosi da un temibile malavitoso Serbo, Milo, e passando le giornate con il suo socio Tonny, uno sbandato che lo aiuta nei suoi traffici. Ma forse c'è la svolta...uno svedese con cui Frank è stato in galera ha bisogno di un quantitativo importante, ne ha bisogno subito, una cosa veloce, indolore. Frank convince Milo a dargli l'eroina a credito promettendoli i soldi in poco tempo, ma sul più bello arriva la Polizia (forse Tonny ha venduto l'amico ??) e dopo un inseguimento a perdifiato Frank si butta in mare disperdendo in acqua la roba. Inizia per Frank un calvario senza fine: gli interessi chiesti da Milo vanno oltre il comune strozzinaggio e nonostante il braccio destro del boss Serbo, il possente Radovan, lo aiuti in un primo tempo a recuperare crediti quà e là, ben presto si ritroverà solo nella disperazione più totale, perchè ogni mossa sembra peggiorare le cose sempre di più...un gran finale aperto lascia tuttavia intravedere un sottilissimo raggio di luce alla fine di un tunnel parecchio buio...
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Dopo otto anni e un passaggio a Hollywood dove Refn gira "Fear X" (con niente poco di meno che John Turturro..) , il nostro torna al suo cinema più viscerale con la seconda parte della trilogia.
PUSHER II: WITH BLOOD ON MY HANDS
Uscito di galera dove dalla dipendenza dell'eroina passa a quella della cocaina, Tonny é più che mai uno sconfitto. Ma fuori è peggio e le cose per lui si mettono subito malissimo...il padre (un grosso ricettatore d'auto di lusso) lo rinnega, prende coscienza della sua impotenza, scopre di avere un figlio e il suo amico Kurt lo trascina suo malgrado in uno sfortunatissimo affare di droga con il cinico Milo, sempre più abile nel manipolare e trarre vantaggio dai deboli. Incapace a far fronte a tante vicissitudini, Tonny affonda sempre di più nella droga e
in una notte di follia l'unico tentativo di riscattare il suo orgoglio da umiliazioni sempre più devastanti si trasfomerà in tragedia.
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PUSHER III: I AM THE ANGEL OF DEATH
Il giorno del 25simo compleanno della figlia, si presenta come un giorno piuttosto intenso per Milo, uno dei signori della droga di Copenaghen: deve cucinare per i 40 invitati alla festa, presentarsi agli appuntamenti della terapia di gruppo per disintossicarsi dall'eroina e come se non bastasse la macchina in arrivo dall'olanda che doveva essere rifornita di polvere marrone è invece carica di ecstasy, un'articolo solitamente estraneo ai suoi traffici. Nel tentativo di rivendere subito tutte e 10.000 le pastiglie, Milo commette una leggerezza e si ritrova in debito di 130.000 corone con un mafioso macedone, Luan. Pur di guadagnare tempo accetta di lasciare ad un uomo di Luan, l'albanese Rexho, il suo locale come luogo di contrattazione per la vendita di una prostituta. Ma evidentemente tra Serbi e Albanesi non scorre buon sangue e pian piano anche il demone della droga si riprende possesso di Milo.
Quando la situazione degenera Milo tira fuori il suo lato più oscuro e primitivo lasciando dietro di sè una spaventosa scia di sangue...
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Frank, Tonny, Milo. Tre personaggi, tre ritratti di personalità ai margini della società, perdenti assoluti esiliati in un mondo invisibile ai comuni mortali nel quale non esiste nessuna morale e dove non ci si può fidare di nessuno. Ogni mitizzazione della malavita (in qualche modo un passaggio forzato del genere noir) viene qui volutamente ignorata e Refn non indietreggia di fronte a nulla pur di presentarci i suoi personaggi nella loro cruda verità. Il crimine in tutto il suo abominio, i criminali, i rapporti tra loro, le loro azioni e i loro sentimenti ci vengono mostrate in tutta la loro spietatezza.
Frank, il protagonista del primo episodio, rimane forse quello più umano. Uno spacciatore cosciente del proprio disagio esistenziale ma che in fondo desidera altro. Fedele a un proprio codice della strada, rimane intrappolato in un ambiente meschino e violento senza mai avere la forza necessaria per uscirne, ma solo per poterci sopravvivere nonostante non ne approvi a fondo le regole non scritte. La differenza con Tonny è netta, quest'ultimo è l'incarnazione stessa di un mondo, quello della tossicodipendenza, e di tutto il suo squallore. La solitudine, la falsità, la vigliaccheria, l'incapacità di affrontare la realtà, di farsi carico delle proprie responsibilità...
Sorprendente come Refn (grazie anche all'intensa interpretazione di Madds Mikkelsen, famoso in Danimarca per ruoli in film a carattere sentimentale) riesca in ogni momento a far emergere in Tonny un personaggio estraneo alla normalità, emarginato perfino da ladri di mezza tacca e tossicodipendenti, disprezzato dalla sua donna, odiato dal padre, deriso da tutti.
La steadycam perennemente attacata alle sue spalle lo vede evolvere nei locali, appartamenti e strade di Copenaghen, ma non c'è posto in cui possa sentirsi a suo agio. Struggente nel finale quando prendendo in braccio il figlio neonato si rende conto di provare non tanto un sentimento d'amore quanto la piacevole sensazione di stringere l'unico essere umano che non lo disprezzi...Semplicemente scioccante poi, il suo rapporto malato con la cocaina, il cui stra-abuso non riesce mai a placare il profondo tormento, precipitandolo sempre più velocemente nel vuoto.
Se Frank è un uomo intrappolato e Tonny schiavo della droga, Milo rappresenta il male assoluto. Interpretato alla grande dal gigante Serbo Zlatko Buric, Milo ha tutta l'apparenza di un boss della droga, potente e rispettato. Ma la dipendenza dall'eroina e un rapporto ambiguo con la figlia (che vuole diventarne partner in affari) lo tengono sempre al limite...in un ambiente come quello della droga basta un nulla per ribaltare completamente i ruoli e quando si ritroverà in posizione di inferiorità tirerà fuori una violenza figlia della sua follia latente. Scaltro, manipolatore, che comunica ad intermittenza cercando sempre di mettere sotto pressione il suo interlocutore per studiarne le reazioni spontanee e trarne profitto.
E' probabilmente attraverso il suo personaggio che Refn riesce a descrivere perfettamente il giro della droga, che passa di mano in mano senza che ci sia un minimo di fiducia tra le parti, ma solo una mascherata e ipocrita facciata di amicizia. Se a un certo punto della catena una qualsivoglia parte (per quanto forte) interrompe il passaggio della droga in un senso, o dei soldi nell'altro...và praticamente incontro alla morte. Soldi e droga, quasi un concetto unico o perlomeno due entità del male che insieme creano un girone dantesco (...ovviamente infernale) in cui molti dei personaggi del film si perdono. Chi vende droga per i soldi, chi ha bisogno dei soldi per la droga, chi pensa di fare la prima cosa mentre invece fà la seconda...
Sono davvero infiniti gli spunti dell'opera di Refn...sicuramente notevole l'uso dei personaggi secondari, alcuni dei quali si ritrovano in due o tutti i film della trilogia e di cui alcune piccole differenze (solo per i più attenti) lasciano sottintendere alcune sottotrame avvenute nelle ellissi temporali tra un film e l'altro.
Inutile spendere parole di sdegno per la non distribuzione al cinema in Italia, (tanto siamo abituati) ma il fatto che la 01 distribuzione abbia fatto uscire il primo capitolo in DVD più di un'anno fà (marzo 2007) e che il secondo debba ancora uscire è francamente vergognoso.
Per chi non ha problemi con l'inglese il cofanetto USA ha anche uno spassoso extra con Milo in cucina che prepara alcune specialità dei Balcani.

lunedì, aprile 07, 2008

IL CAPO DEI CAPI: QUARANT'ANNI DI COSA NOSTRA SICILIANA IN SALSA MEDIASET.

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La Tao Due, casa di produzione figlia di Mediaset, si cimenta ormai da alcuni anni in fiction televisive ad alto budget. Se per quanto riguarda le produzioni seriali televisive l'interesse è piuttosto scarso, [vedi RIS (il CSI pizza e fichi), i vari Distretti di polizia piuttosto che Ultimo o chi per lui...], si è notato nelle produzioni più recenti una maggiore cura tecnica ed autoriale, sopratutto nelle mini serie. (formula che prevede un massimo di 5-6 episodi di lunga durata, intorno ai 100 min.) Dopo il successo di "Paolo Borsellino" (mini-serie in 2 episodi) che ha avuto il pregio di rispolverare in maniera finalmente consona il tema della lotta alla mafia, "Il capo dei capi" si presenta ancora più in grande. Sei episodi da un'ora e quaranta per capovolgere il tema appena enunciato, e per raccontare la storia di Salvatore Riina, dominatore spietato della mafia siciliana per tutti gli anni ottanta fino alla sua cattura nel 1993, e della sua guerra allo stato. Una storia diametralmente opposta a quella di Borsellino (e Falcone) quindi, ma non per questo meno interessante e che nelle vicende dell'Italia di quegli anni ha giocato un ruolo spaventosamente e tragicamente importante. Tuttavia per quanto la fiction si sforzi di ricostruire minuziosamente la travagliata infanzia/gioventù di Totò, così come di descriverne i tratti caratteriali fino a illustrare la sua clamorosa ascesa nel seno di cosa nostra, sono troppi i lati oscuri della storia della mafia di quegli anni (70'-90') per averne un quadro veramente completo. Quà e là mediaset ci mette del suo tralasciando o sorvolando alcuni aspetti delle varie vicende, ma nel complesso valutanto per l'appunto che proprio di fiction televisiva si parla (praticamente il regno delle favole e della demagogia), l'intera opera risulta ben strutturata e, a tratti, addirittura ispirata.

Ma veniamo a noi: rimasto orfano di padre (che muore facendo esplodere un'ordigno bellico trovato nelle sue terre nel tentativo di recuperare e vendere ai cacciatori la polvere d'asparo in essa contenuta) Totò diventa capo famiglia a soli 13 anni. Lavorerà al soldo del mafioso Luciano Liggio che vede in Totò nella sua fame e nella sua spietatezza, il futuro della mafia Corleonese. Insieme uccideranno Navarra, il boss di Liggio e di tutta Corleone. Assieme al nuovo boss Liggio, e agli amici Bernardo Provenzano e Calogero Bagarella, Totò, una volta uscito di galera a seguito di un'omicidio commesso in una rissa, partirà alla volta di Palermo. Qui, passati indenni attraverso la prima guerra di mafia, l'ormai consolidata cosca dei Corleonesi riuscirà a entrare nella commissione (o cupola) di cosa nostra, l'elite mafiosa che decide spartizioni di tangenti, appalti, territori e non di rado della vita e della morte di chi non rispetta le regole. Con un uso diabolico del doppio gioco, del tradimento, di furbizie varie e anche dell'infamia, Totò riuscirà a creare caos, tensioni e fortissimi dissapori all'interno della commissione. Una situazione favorevole , perchè al suo parossismo Totò prenderà il totale controllo di cosa nostra a seguito della seconda guerra di mafia, una guerra senza precedenti che conta più di mille morti solo a Palermo e in meno di due anni. Una volta diventato "capo dei capi" inizia la guerra allo stato che conta vittime eccellenti come il generale Dalla Chiesa, e i giudici Falcone e Borsellino. (solo per citare i più clamorosi) Dopo le stragi l'inevitabile declino, i pentiti, la risposta dello stato e la cattura.

Tutti gli episodi cruciali del curriculum criminale di Totò sono riportati con cura (non a caso la sceneggiatura si rifà all'omonimo libro di Attilio Bolzoni e Giuseppe D'avanzo che ha per sottotitolo "vita e carriera criminale di Totò Riina"; consigliatissima la lettura.) e non mancano neanche i momenti in famiglia e tra amici (per così dire). A discapito però di un copione uniformemente spalmato su tutta la sua lunga durata, gravano due pesantissime pecche: inanzitutto un personaggio inventato, quello dell'insopportabile sbirro casa e chiesa Biagio Schirò, a fare da collante narrativo alle varie e complesse vicende di intrighi mafiosi, e poi qualche maldestrissima caratterizazzione di personaggi in realtà ben più importanti di come vengono qui dipinti. Iniziamo con Biagio Schirò. Amico di infanzia dello stesso Riina, rinuncia ad un futuro di mafia e ne prende le distanze diventando carabiniere in servizio nel suo stesso paese. (un carabiniere di Corleone a Corleone...un'appello agli sceneggiatori: si poteva trovare di meglio, no ??). Non solo il nostro sbirro dal forzato accento siciliano interpretato dal belloccio di turno (un convintissimo Daniele Liotti), puzza di fiction poliziesca di basso livello, ma assume proporzioni da vero e proprio eroe da tragedia greca. Solo contro tutti si batterà per arrestare Riina, e nella sua lunga carriera sarà sempre al centro di tutte le vicende. Da piccolo è amico di Riina e Provenzano, poi diventa amico di Boris Giuliano, Rocco Chinnici, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino...e che cazzo, tutto lui...!! Insopportabilmente inverosimile e dannatamente palloso nelle sue vicende familiari, Schirò non fà altro che rompere il ritmo della fiction che sarebbe stata senza di lui ben altra cosa. Esigenze di copione o esigenze di pubblico femminile ?? A macchiare ulteriormente lo svolgersi della storia ci sono anche alcuni personaggi resi in modo pessimo, vedi Michele Greco detto "il Pàpa", troppo macchiettistico e lontano fisicamente dal prototipo, un Leoluca Bagarella all'acqua di rose (di ben altra efferatezza quello vero), Giovanni Brusca in versione talebano e un pallido Paolo Borsellino che fà rimpiagere amaramente il Giorgio Tirabassi della fiction dedicata al giudice. Ne dimentico altri.

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Ma veniamo ai lati positivi: Un cast parzialmente azzeccato, un grande protagonista e alcuni dialoghi molto ben resi, sia in chiave narrativa (quando raccontano e riassumono episodi non visti nella fiction) sia in chiave realistico-descrittiva (buon uso, pur sempre televisivo, del dialetto palermitano e alcuni ottimi monologhi chiave nel rendere i personaggi di Liggio, Buscetta e dello stesso Totò...). Nel cast oltre al protagonista sul quale ci soffermiamo tra un'attimo, spiccano Claudio Castrogiovanni (un'ottimo Luciano Liggio di cui coglie la forza e la spietatezza in gioventù e la spacconeria una volta uscito dai giochi) un convincente Stefano Bontade (non sono riuscito a risalire a tutti i nomi degli attori) tutto lusso sangue alla testa e spavalderia, un grande Vincent Riotta (Masino Buscetta) un Tano Badalamenti e un Provenzano che superano la sufficienza e un sorprendente Giuseppe di Cristina.

Claudio Gioè nei panni di Totò Riina, per quanto parecchio diverso fisicamente ,riesce a cogliere in pieno il carattere rozzo e silenzioso del boss in un'abile chiave interpretativa all'insegna dell'"undeplay". Poche mimiche, poca inclinazione all'istrionismo, ma una recitazione semplice ed essenziale in piena sintonia con la flemma del vero Riina, il quale alla domanda "che cosa facciamo ??" rispondeva sempre "...niente, aggiustiamo solo le cose..." (per aggiustare le cose s'intende ovviamente uccidere). Bravo anche in situazioni di doppio gioco dove rende perfettamente la situazione di "tensione sotto controllo" che permette a Totò di gestire a suo favore anche le situazioni più tese approfittando del codice della commissione che alcuni mafiosi applicano a loro modo. Bravo infine, nei sottopanni del diavolo tentatore che piano piano si fà amico picciotti potenti di famiglie rivali. "Te li presto io i soldi per le cure di tuo fratello...non mi puoi ridare indietro i soldi ?? Vuol dire che mi ripagherai con la tua amicizia...". Un Riina a tutto tondo quindi, il nostro claudio Gioè, che dà prova di un grande potenziale.

Alcuni dialoghi interni alla commissione sono efficaci, come quello in cui Riina, accusato di fare il doppio gioco risponde a tutti i presenti mettendo in cattiva luce l'attendibilità del suo interlocutore: "Gli uomini si dividono in due categorie. Chi scopre i fatti...e chi scopre le chiacchere. Cristoro Colombo per esempio, ha scoperto l'America...è un fatto, stà là...ma chi scopre le chiacchere, i pettegolezzi...ma mi dite che minchia di scoperta fà !?!?". Altri dialoghi tra Badalamenti, Bontade e Buscetta sono efficaci ai fini della trama e credibili anche in'ottica storico-mafiosa. Chiuderei qui per quanto riguarda la mafia-fiction made in Italy, nella speranza che una tale produzione possa dare il là ad altre criminal-fiction di livello purchè si possa fare a meno del buonismo e del manierismo che in questa sede ha il volto di Biagio Schirò. Ci saranno altri modi per poter fare da collante alle varie vicissitudini di un copione ?? No ??

lunedì, marzo 31, 2008

MEAN STREETS - GOOD FELLAS - CASINO':
L'ASCESA DI SCORSESE NELLA "COSA NOSTRA" AMERICANA
(o meglio ancora: dalle strade cattive quei bravi ragazzi sono arrivati a Las Vegas...)

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Martin Scorsese è stato indubbiamente il regista di Hollywood che meglio ha saputo descrivere il fenomeno mafioso italo-americano. Lontano da stereotipi di film che avevano fatto la fortuna del genere in questione (mafia-movie), uno su tutti "il Padrino", ha re-inventato e stravolto allo stesso tempo il concetto di mafia grazie alla sua capacità di addentrarsi nei microcosmi che la compogono partendo sempre da storie reali.
I tre film che andiamo ad analizzare sono tre storie ben definite e senza nessun legame apparente tra loro. Tuttavia viste in un ottica globale, le tre pellicole rapprensentano un'ideale trilogia nel corso della quale, partendo dalle "strade cattive" del primo capitolo, si arriva dritto dritto a uno dei più importanti templi del denaro americano: Las Vegas.
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MEAN STREETS: Uscito nel 1973, Mean streets è il quarto lungometraggio di Scorsese, e forse i più attenti, potrebbero annotare che il film parte idealmente là dove finisce "Chi stà bussando alla mia porta" (Who's that knocking at my door) del 1969. In effetti già dai primissimi scorci del film, Harvey Keitel esclama tra sè e sè: "You don't make up for your sins in church, you do it in the streets, you do it at home...the rest is bullshit and you know it."
La religiosità deviata della quale erano impregnati i protagonisti del precedente film, è in Mean streets lo spartiacque della coscienza di Charlie (Keitel). Protetto dallo zio che è uomo d'onore, Charlie non riesce a mettere sulla buona strada l'amico Johnny boy (De Niro, mefistofelico e tormentato come non mai) e si ritrova volente o nolente sempre coinvolto nelle sue vicende losche nonostante lo zio voglia per lui un posto di reponsabilità. Non solo, Charlie ama la cugina di Johnny, Teresa, una ragazza epilettica. Quando lo zio metterà in condizione Charlie di dover prendere una decisione, se lavorare per lui ma mollare i suoi amici o rinunciare a tutto per loro, un'inarrestabile susseguirsi di eventi che porteranno a una tragica fatalità si sarà già messo in moto...
Mean streets, a differenza di Good Fellas e Casino', non è tratto da una storia vera, ma paradossalmente è la più vera di tutte e tre le storie. Fortemente autobiografico, impietoso e lucidissimo nel descrivere un mondo di balordi falliti che nella migliore delle ipotesi flirtano con la malavita vera, mette tutti i personaggi al bando rilegandoli a un destino di sofferenze e autocommiserazione che neanche la fede più profonda potrà far svoltare. Come al solito, ma più che in altri film dell'autore, l'uso della musica è eccezionale. Come quando seguito da una camera a spalla, Johnny boy entra in un locale fumoso e decadente, con camminata spavalda e sapientemente rallentata, sulle note luciferine di "Jumpin'jack flash" dei Rolling Stones. O come quando una festa di rimpatrio di un marine dalla guerra in Vietnam si trasforma in una sbornia colossale al ritmo di "Rubber biscuits" dei "The chips" oscura band doo-wop degli anni 50'. Originale e azzeccatissima la scelta di fissare la camera al corpo di Keitel, con l'obiettivo volto verso il suo viso. Il tipo di movimento dell'inquadratura, sempre fissa e dove è solo lo sfondo a muoversi, assieme al ritmo sincopato del pezzo crea una sequenza vertiginosa e alcolica che lascia allo spettatore dei veri e propri postumi da ubriacatura. Ma è tutto il film a funzionare perfettamente, nella sua descrizione d'ambiente come nel dettaglio dei personaggi. Un ambiente sempre ai margini della legalità dove la mafia attinge a piene mani e popolato da personaggi nati perdenti e pronti a tutto pur di guadagnarsi, anche sulla pelle del prossimo, un minimo di visibilità e di dignità in una società cinica che rispetta solo chi ha soldi e successo.
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GOOD FELLAS: Nel 1990 Scorsese torna al mafia-movie (ma definire Mean streets come tale sarebbe erroneo) adattando il romanzo "Wise-guy" di Nicolas pileggi. Il plot narra l'incredibile e per molti versi allucinante vicenda di Henry Hill, ragazzo Italo-Irlandese che fin da ragazzo si ritrova invischiato in ambienti malavitosi. Con i suoi complici Tommy e Jimmy (Pesci & De Niro) diventerà soldato per una delle cosche della famiglia Lucchese senza però poterne diventare affiliato a causa delle sue radici non completamente siciliane. Tra alti (un furto di svariati milioni di dollari ai danni della Lufthansa che entrò a pieno titolo nella storia del crimine americano) e bassi (la galera, la dipendenza dalla droga) arriverà a un punto di non ritorno: Unica via d'uscita, il pentimento. Henry diventerà collaboratore di giustizia e farà arrestare più di 200 persone tra cui mafiosi di alto rango come il suo boss Paul vario e il suo miglior amico Jimmy Burke.
Good fellas è un film epocale, sensazionale, mostruoso e chi più ne ha più ne metta. Nessuno prima (e forse neanche dopo) ha mai pensato di poter arrivare a tanto. L'epopea di Henry (Ray Liotta, mai più così brillante) parte da giovanissimo, e attraverso i suoi occhi da bambino siamo catapultati al ritmo vertiginoso di Louis Prima e Dean Martin in un mondo di furberie, scorciatoie morali, gioco d'azzardo, contrabbandi, corruzione, furti, rapine e quant'altro. Il tutto viene vissuto da Hill ragazzo come la più normale delle cose: "As far back as i can remember, i always wanted to be a gangster." rammenta nello straordinario incipit.
Scorsese sembra solo in apparenza mistificare e glorificare l'universo mafioso, in realtà è proprio celebrandolo in tutto il suo perfetto funzionamento che ne fà emergere i lati più odiosi e rivoltanti. E visti alla luce di tutti gli eventi che portano alla fine del film (e sopratutto della vicenda di Hill che continua dopo i fatti qui narrati) i soldati della famiglia Lucchese non sono poi così diversi dai perdenti di mean streets, solo più fortunati nel poter mangiare per qualche anno una piccola fetta di un'enorme torta con la quale si abbuffano i "boss", quelli veri...
Cercare di estrapolare una sequenza su tutte sarebbe inutile e ingiusto. Good Fellas è un film che non dà un'attimo di tregua e che viene visto dall'inizio alla fine col cuore in perenne tachicardia. L'incipit, genialemente estrapolato con un flash forward da uno degli episodi cardine del film (la morte di Jimmy Batts) dà il via a un seguito febbricitante di dolly e piani sequenza memorabili scanditi dall'uso mai così funzionale della voce fuori campo, tanto coinvolgente da sembrare una vera e propria invenzione. Il resto, tra cui un fantastico De Niro nei panni di Jimmy Burke, potente gangster irlandese al soldo della famiglia Lucchese, e un'indimenticabile Joe Pesci/Thomas De Simone, schizzofrenica e psicotica spalla di Henry, non fà altro che accrescere la tensione narrativa di un film che in quasi tre ore riassume praticamente trent'anni di mafia NYchese.
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CASINO': "When you love someone you gotta trust him, there's no other way. You gotta give him the key of everything's that's yours. Otherwise what's the point ?!?
For a while i believed that was the kind of love i had..."

L'incipit di Casinò è secco, brutale, spettacolare. Non ci si aspetta certo che Sam Rothstein, vestito di tutto punto, uscendo da un elegante ristorante di Las Vegas pensando alla frase citata qui sopra, salti in aria non appena accende la macchina. I titoli di testa prendono poi il sopravvento per lasciarci alla prima ora di film che praticamente senza prendere fiato ci catapulta nel meccanismo della più implacabile macchina da soldi del pianeta: Las Vegas.
Book-maker leggendario e per questo perseguitato in tutti i principali Stati Americani, Sam Rothstein trova rifugio a Las Vegas dove grazie al suo talento per l'azzardo, qualche conoscenza mafiosa e una scorciatoia legale, prenderà in gestione un casino', il Tangiers. Con al suo fianco Ginger, la donna che gli farà perdere la testa, (e nel finale tutto il resto...) e l'amico d'infanzia Nicky, gangster spietato e mitomane, arriverà ad avere tutto e a perdere ancora di più.

Casino' viene troppo spesso liquidato come una copia patinata di "Good Fellas" e proprio per questo il film, specialmente in patria, non ha avuto il successo che si meritava. Pur essendo un mafia movie a tutti gli effetti che, come nel caso del suo predecessore, è ispirato a una storia vera, Casinò aspira a qualcosa di più. Nel ripercorrere le vicissitudini di Frank Rosenthal e Anthony Spilotro (i nomi dei veri protagonisti della vicenda ricostruita nel film) Scorsese tira in ballo temi che di rado a Hollywood vengono trattati in modo così esplicito: il dio denaro, la brama di potere, la mitomania, la follia e la corruzione...
La messa in scena spettacolare, la fotogtrafia mozzafiato, il montaggio serratissimo coadiuvato da inquadrature sempre in movimento e le interpretazioni di De Niro, Pesci e di Sharon Stone (al suo top) sono perfetti in ogni dettaglio. In tre ore e passa di film non c'è praticamente una caduta di tono e il finale apocalittico è all'altezza di tutto il resto, cosa non certo scontata.
Inutile soffermarsi sulla mostruosa recitazione di un De Niro ispiratissimo e di un Pesci veramente spaventoso, che portando le loro caratterizzazioni alle vette più alte del genere, diventano veri e propri punti di riferimento per un'intera generazione di gangster del cinematografo. Moltissimi e formidabili i personaggi di contorno, a partire dai vecchi boss del Midwest che si spartiscono le gigantesche mazzette in provenienza dal Tangiers nel retro di una rosticceria mangiando polpette al sugo fino ad arrivare al mio personaggio preferito del film: Frank Marino. Interpretato dal mitico Frank Vincent e già attore feticcio di Scorsese (Toro scatenato, Good Fellas e i più scaltri lo conosceranno per il suo ruolo di Phil Leotardo ne "I Soprano"), Marino è la spalla silenziosa e taciturna di Nicky, manovalanza pura che però pian piano inizierà a fare da tramite tra i boss e Nicky, fino a eliminare di persona quest'ultimo in una sequenza di rara brutalità. Quando i boss avvertono che Nicky stà perdendo il controllo, sarà Marino a toglierlo di mezzo uccidendo lui e il fratello a colpi di mazza da base-ball prima di seppellirli vivi...
Si conclude quindi in un bagno di sangue la nostra ideale trilogia Scorsesiana della mafia, e non poteva essere altrimenti. Ci rimane però negli occhi tutto il talento di un grande autore che grazie al suo furore visivo ha saputo riscrivere le regole di un genere che prima di lui era ancorato agli stereotipi del mafioso alla Don Vito Corleone (non che questi non ci piaccia...anzi) e a schemi narrativi che precludevano tutte quelle zone d'ombra dell'universo mafioso che solo lui ha saputo raccontare in modo così appassionante.
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